Ero stato appena urtato da una moto che sfrecciava come una scheggia. Mi ero lanciato contro la parete di un vicolo stretto che affacciava su Via dei Tribunali e avevo il cuore che martellava più per lo spavento che per il colpo. Vidi la moto da cross allontanarsi con due ragazzi a bordo coperti da un casco integrale e poi sentii due spari. Ecco perché correvano. Probabilmente in quel momento la mia abbronzatura era sparita di colpo e Gelsomina, la fruttaiola che aveva il suo banco di verdura proprio lì vicino, lo aveva notato. Mi si avvicinò decisa mormorando qualcosa che non riuscivo a capire e mi abbracciò. “Non è successo niente. – Mi disse – Stai tranquillo, sono fatti loro. Siediti qui un attimo e poi te ne vai a casa. Quelli sono dei disgraziati!”
Non volli sedermi, ero troppo orgoglioso per farlo, ma apprezzai la gentilezza spontanea di quella signora anziana che vedevo tutte le mattine quando andavo all’Università.
Gelsomina era un monumento urbano. La vedevi tutti i giorni seduta nello stesso posto e potevi chiederle qualunque informazione. Lei ti rispondeva. “Sto cercando una casa”, “Mi serve un idraulico”, “Hai visto passare Saverio, il mio compagno di appartamento?” Gelsomina rispondeva sempre e la sua voce sapeva di terra, di asfalto bagnato, aveva il suono gracchiante dei motorini sui sanpietrini. Sembrava essersi fusa, con il passare degli anni, ai rumori della città.
Tornando a Napoli, qualche anno dopo, per finire il mio libro Incastri fuorisede, passai a cercare il suo banchetto per salutarla e al suo posto trovai una piccola lapide in marmo, posata dalla figlia. C’era scritto:
“In questo angolo del cuore di Napoli Gelsomina Cammarano trascorse la sua vita portando Napoli nel cuore”.
In tanti anni vissuti fra quelle strade non avevo mai saputo il cognome di Gelsomina e, cosa ancora più grave, non l’avevo mai ringraziata per quell’abbraccio inaspettato offerto tanto tempo prima a uno studente fuorisede spaventato.
Spero di averlo fatto adesso.